Palomba dell’Elvira

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Per la preparazione:

• 2 palombe giovani

• 1 salsiccia

• 2 fette di pancetta fresca

• salvia

• rosmarino

• 2 capi d’aglio

• 1 manciata di olive verdi fresche

• 2 bicchieri olio extravegine di oliva

• 2 bicchieri vino rosso sangiovese

• sale e pepe

Ricetta

Pulire ed eviscerare le palombe conservando a parte le interiora (fegato, cuore…).

Dopo averle unte e salate infilarle sullo spiedo.

Metterle davanti al fuoco ma non troppo vicine alla fiamma. Sotto le palombe mettere una leccarda (o ghiotta) in cui porre olio, vino, odori, le interiora delle palombe, la pancetta e le salsicce a pezzi.

Lasciar cuocere per circa due ore sia le palombe che la leccarda in modo che i vapori condiscano le palombe impedendo che la carne si secchi.

Al termine della cottura macinare tutto il contenuto della leccarda ottenendo così un patè.

Tagliare le palombe a pezzi e disporle sul piatto di portata insieme al patè.

 

 

Olio D.o.p. Cartoceto

Alcuni storici fanno risalire l’origine di Cartoceto ai Cartaginesi che, scampati alla battaglia del fiume Metauro (207 a. C.), si sarebbero fermati sul posto formando i primi nuclei familiari. Cartoceto deriverebbe così da “Carchidon” o “Carthada”, nome greco di Cartagine, o dal latino “Carthaginensium coetus”, gruppo di Cartaginesi, da cui Carticetum. I territori, posti sotto la giurisdizione di Fano, costituivano una importante risorsa olearia: Cartoceto spiccava perchè primeggiava con le sue produzioni. L’olio prodotto ha rappresentato da sempre uno tra i beni più apprezzati e la Comunità si preoccupò, fin dai primi tempi, di vendere l’olio in piazza nei giorni di mercato. L’olio non serviva solo al fabbisogno del paese, ma era richiesto e apprezzato anche fuori regione. Diversi documenti attestano la notorietà, fin dal 1500, che aveva acquisito l’olio prodotto a Cartoceto.

In tavola – L’olio di Cartoceto ha dimostrato di possedere tutte le qualità solitamente riconosciute ad un buon extravergine: per questo rende appetitosa anche una semplice fetta di pane abbrustolito, possibilmente sul fuoco di legna . Baccalà e crostini all’olio di Cartoceto sono una semplice ma gustosa ricetta.

La conservazione – L’olio deve essere conservato in ambienti freschi, asciutti e lontano da fonti di calore, a una temperatura compresa tra i 14 e i 20°C. In questa situazione ottimale la qualità del prodotto resta integra per oltre tre anni. Con le basse temperature l’olio può andare soggetto a congelamento, per cui, prima di iniziarne il consumo, occorre riportare i recipiente a temperatura ambiente (16-18°) per alcuni minuti e agitarlo ripetutamente, per agevolare il ritorno del prodotto allo stato naturale.

Dove si produce – La zona di produzione della Dop Cartoceto interessa, nella provincia di Pesaro e Urbino, i territori dei comuni di Cartoceto, Saltara, Serrungarina, Mombaroccio e parte di quello di Fano.

Come si produce – L’olio extravergine di oliva Cartoceto Dop è prodotto principalmente dalle varietà di olivo Raggiola, Frantoio e Leccino e da altre varietà minori, come Raggia, Moraiolo o Pendolino. La raccolta delle olive è di tipo tradizionale, con pettinatura a mano o sistemi meccanici come rastrelli pneumatici o elettrici; sono invece vietati metodi come scuotimento, abbacchiatura o abscissione. La molitura viene effettuata entro due giorni dalla raccolta; le olive devono sostare solo poche ore nei frantoi. L’estrazione dell’olio mette in relazione il tipo di frangitura, le temperature e i tempi di gramolazione con il grado d’invaiatura ed il periodo di raccolta delle olive. Non è ammesso il metodo di trasformazione noto come “ripasso”; durante la trasformazione è vietato usare prodotti chimici o biochimici. È consentito soltanto la filtrazione con apparecchiature di tipo meccanico. Gli oli prodotti sono stoccati, fino al momento dell’imbottigliamento, in botti di acciaio inox condizionati con azoto.

Produttori di questo eccezionale D.o.p. si ritrovano anche all’interno del marchio centro del gusto.

 

Fonte: http://www.centrodelgusto.com/prodotti-tipici/olio-dop-cartoceto.html

Nocette di sella di capriolo in salsa aromatica

Scarica la ricetta:nocette_sella_capriolo

Per la preparazione:

• una sella di capriolo

• 12 o più fettine di pancetta stesa stagionata

• rametto di rosmarino

• uno spicchio d’aglio

• un bicchiere di vino bianco

• un bicchierino di grappa

• 400 ml di salsa di pomodoro

• sale e pepe

Ricetta

Disossare una sella di capriolo ricavando dai due lombi 12 nocette dello spessore di circa tre dita. Ognuna delle nocette ricavate dovrà essere avvolta, nel senso opposto alla fibra muscolare, con una fettina di pancetta stagionata e legata con spago da cucina. Nel frattempo aggiungere in un bicchiere di vino bianco un rametto di rosmarino e lo spicchio d’aglio.

Scaldare un filo di olio in una padella, e poi fare rosolare le nocette per 10 min rigirandole su ogni lato, salare e pepare quanto basta. Aggiungere un bicchierino di grappa e fiammeggiare; successivamente unire il bicchiere di vino bianco con i suoi aromi e fare evaporare.

Aggiungere la salsa di pomodoro (circa un cucchiaio per ogni nocetta) e far cuocere col coperchio a fuoco lento per circa due ore, aggiungendo se occorre un po’ di acqua calda. A fine cottura, eliminare il filo da cucina e disporre le nocette appoggiandole sul lato non coperto dalla pancetta. Ottimo se servito accompagnato da polenta.

Miglioramenti ambientali

Per “miglioramenti ambientali” si intendono tutti quegli interventi sul territorio volti ad aumentare la capacità dello stesso di fornire riparo e risorse alimentari alle diverse specie animali.

Detta attività riveste primaria importanza nella gestione faunistica del territorio anche se tale concetto risulta spesso poco noto agli addetti ai lavori o perlomeno non tenuto in debita considerazione.

Molto meglio lasciare colture a perdere a “macchia di leopardo” sul territorio, non solo quello sottoposto a tutela ma anche quello destinato alla caccia programmata, piuttosto che spendere risorse inutilmente in lanci di fauna selvatica d’allevamento.

I principali interventi di miglioramento ambientale possono essere così suddivisi:

 1. Colture a perdere, ovvero coltivazioni lasciate sul campo e non raccolte, al fine di fornire cibo e rifugio a diversi animali (appezzamenti di sorgo, di grano, di girasole, ancor meglio se misti tra loro o con erba medica);

2. Reimpianto di siepi, possibilmente costituite da essenze arboree ed arbustive autoctone, tra cui specie che producono bacche (biancospino, prugno selvatico, sorbo degli uccellatori, sambuco, ecc…) che maturino in differenti momenti. Le siepi, oltre che costituire cibo e rifugio per molti uccelli e mammiferi, rappresentano anche un importante elemento paesaggistico e di consolidamento del suolo, soprattutto se realizzate in terreni in forte pendio;

3. Ricostituzione di zone umide, anche di modeste dimensioni, per l’elevatissimo valore biologico di detti habitat, in particolar modo nel periodo del passo autunnale e del ripasso primaverile di specie legate all’ambiente acquatico (anatidi, rallidi, limicoli);

4. Posticipo dell’aratura dei terreni ove possibile, visto il tipo di coltura che andremo a mettere a dimora. L’esistenza di stoppie di cereali, di sorgo, di girasole, di granoturco, costituisce durante l’inverno un sicuro luogo di alimentazione per molte specie, dal fagiano al colombaccio, alla starna, alla lepre.

Inquinamento da piombo

Ha suscitato perplessità tra i cacciatori quella disposizione del calendario venatorio regionale che recita “Nelle Zone di Protezione Speciale e nei Siti d’Interesse Comunitario è vietato l’utilizzo di munizionamento a pallini di piombo all’interno delle zone umide, quali laghi naturali ed artificiali, stagni, paludi, acquitrini, lanche e lagune di acqua dolce, salata, salmastra, corsi naturali … e corsi d’acqua artificiali, nonché nel raggio di 150 m dalle rive più esterne a partire dalla stagione venatoria 2008/2009”. Il piombo è un metallo che ha esclusivamente effetti negativi sulla nostra salute in quanto non svolge alcuna funzione essenziale nel corpo umano ma può solo causare seri danni in seguito al suo assorbimento tramite cibo, aria o acqua: coliche addominali, disfunzione cerebrale, anemia, danni al sistema nervoso, al fegato e ai reni. Molto più degli esseri umani, tutti gli uccelli acquatici appartenenti alla famiglia degli anatidi (anatre, oche, cigni, …) ed in minor grado anche altre specie frequentanti gli stessi habitat (limicoli in genere) sono interessati dall’inquinamento permanente da piombo degli ecosistemi acquatici, poiché possono inghiottire considerevoli quantità di pallini di piombo mentre si alimentano. Anche livelli bassi di ingestione di pallini in piombo possono determinare l’insorgere dei disturbi sopra descritti che prendono il nome di “saturnismo”. Il fenomeno del saturnismo è stato inoltre riscontrato pure in altre specie fra cui i rapaci e i fenicotteri. È noto che le anatre in generale si nutrono, oltre che di piante acquatiche e microorganismi trattenuti filtrando l’acqua, anche “vagliando” il fango del fondo dei bacini nei quali si posano alla ricerca di cibo: un pallino di piombo è spesso ingerito perché scambiato per un seme o per un sassolino necessario a triturare semi e/o bacche nel ventriglio dell’animale. Se pensiamo a quante cartucce vengono sparate in alcuni “… laghi naturali ed artificiali, stagni, paludi, acquitrini, lanche e lagune di acqua dolce, salata, salmastra, corsi naturali … e corsi d’acqua artificiali,” la norma iniziale diventa condivisibile. Gli effetti che derivano dall’avvelenamento da piombo rendono gli esemplari contagiati dalla malattia anche più esposti alla predazione poiché essi manifestano indifferenza all’uomo e quasi rifiuto ad alzarsi in volo, anche se disturbati. Inoltre, per la degradazione nell’ambiente dei pallini da caccia sono necessari svariati anni a seconda delle caratteristiche chimico-fisiche del terreno. L’alternativa al piombo esiste ed è rappresentata da munizioni con pallini in acciaio, al bismuto o in leghe di tungsteno, assimilate al piombo come prestazioni rispetto all’arma. 

Incendi

Gli incendi costituiscono un annoso problema che sempre più è concatenato a questioni quali i cambiamenti climatici che si stanno verificando negli ultimi anni (aumento della temperatura media, periodi di siccità prolungata, …) e mutamenti di vita delle comunità antropiche residenti nelle zone montane e rurali.

Nel passato più recente gli incendi hanno provocato un allarme crescente poiché si sono sviluppati con maggior frequenza in aree vicine ai centri abitati, a causa del progressivo abbandono verificatosi delle cure selvicolturali. La strategia vincente per combattere e tentare di debellare questo fenomeno, consiste nella contemporanea adozione di diversi provvedimenti:

– creare una costante sinergia collaborativa tra i diversi Enti (Corpo Forestale dello Stato – Dipartimento della Protezione Civile – Vigili del Fuoco – …) ed i volontari di associazioni venatorie ed ambientaliste;

– attuare la cosiddetta “prevenzione selvicolturale”, ovvero l’adozione di tecniche di coltivazione agraria e boschiva mirate a consentire un rapido ed efficace intervento;

– corsi volti ad elevare la professionalità degli operatori che dovranno poi essere dotati di efficaci mezzi ed attrezzature.

Capita spesso di sentire sui media nazionali e locali che la popolazione dei cacciatori sia ritenuta fortemente indiziata della responsabilità di incendi anche di notevole entità: appare pertanto opportuno e doveroso sfatare questa opinione scorretta sotto un duplice aspetto.

Da un lato la normativa nazionale e locale concorrono nel vietare l’esercizio venatorio per svariati anni nei territori percorsi dal fuoco, dall’altro quasi nessun tipo di specie di fauna selvatica riuscirebbe a sopravvivere in un bosco incendiato o in un calanco completamente privo di vegetazione perché bruciata, habitat privi sia di rifugi che di risorse alimentari. In molte realtà locali italiane, al contrario, le associazioni venatorie prestano volontariamente servizio per avvistare in tempo focolai d’incendi in zone particolarmente a rischio e prevenire ulteriori pericolosissimi sviluppi. Sempre i cacciatori poi sono stati coloro che hanno costantemente osteggiato più di ogni altro l’antica pratica della bruciatura delle stoppie, fenomeno oramai in disuso perlomeno nella nostra regione, tecnica agricola che tanti danni ha arrecato a covate, nidiacei e piccoli nati di fauna selvatica.